Ieri ho fatto una passeggiata per le stradine interne fino all'ufficio postale e poi al supermercato per alcuni oggetti. Avere un torrente accanto fa sentire che non si è mai lontani da dove si deve essere, che scorriamo comunque, indipendentemente da quanto ci accade. Questo è l'Ombrone, che ha per me i ricordi di un'altra esistenza, quando venivo da queste parti a far visita a un amico che non c'è più e che abitava proprio dopo il ponte di Pontelungo. Quante vite in poche decine di anni. E come riescono a restare, modificandosi e sostando nei significati che attribuiamo al presente.
Sono giorni difficili. Uscire e camminare alleggerisce, a volte si riesce a guardare il cielo, altre si cerca di stare come un albero, immobile e paziente, in attesa che qualcosa passi, cambi, ma non possediamo la lungimiranza e la costanza degli alberi. Stamani ho scritto questa poesia pensando agli abeti che in questo periodo di solito entrano nelle nostre case, pensando a come dovrebbero essere nel pieno dell'inverno.
l’inferno finisce, le parole
escono prima
della loro comprensione
ciò che non va al cielo si incaglia
sotto la lingua, resta per anni nel suolo.
Non avere spazio abbastanza
per stendere i nodi nella corteccia
non avere pelle abbastanza
per far scivolare il dolore.
Entra sempre da qualche parte
un occhio, un taglio nel polso
e crepa le fessure.
La mente fa buio troppo presto
esiste, tuttavia, e non è silenzio.
Ogni cosa sbagliata non diventa
radice nel tempo, ogni ramo è stracciato
dai venti. Soprattutto se lo ami. O credi
di amare.
Una volta mi sono distesa nell’acqua
senza cercare la riva e questo era vero.
Era il fondo di un pozzo, ha spaccato
i vetri sul pavimento. Ho smesso
di camminare. L’albero
ha scosso il suo riflesso –
è fermo, laggiù.
Poi, nel pomeriggio, sono uscita per portar via la spazzatura e il cielo era di questo colore. Come se parlasse e in effetti parla. Siamo disabituati alla sua lingua.
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