mercoledì 29 aprile 2020

Nella mezzaluce della pioggia (ancora)


"Ogni elemento della natura ci insegna che se una cosa muore è per fare spazio a un'altra", scrive Henry David Thoreau nel diario del 24 ottobre 1837. Torno al mio posto nel bosco, il paese non resta mai troppo lontano. Piove appena. Camminare quando è appena piovuto e il cielo è basso, grigio, quasi disfatto intorno, è forse la passeggiata che preferisco. Primavera e autunno si toccano in questa pioggia. Procedo lungo la Bure lasciandomi dietro le case, supero la quercia ancora esile, ma in fiore, che abbiamo piantato a settembre scorso, salgo sul ponte di legno restaurato e sono di là. Un di là che è ancora molto "di qua": l'attività umana è ben presente. C'è il campo delle api, con tutte le casette, c'è, poco oltre, il bozzo di Bengasi dove fare il bagno - o almeno un tuffo. Mi fermo solo pochi istanti a salutare. E continuo fra le capanne di attrezzi, i burali, cioè gli orti, in questa mescolanza abitata, fra selvatico e coltivato.


La radura si apre sulla destra. C'è un vecchio metato in abbandono, che ho fotografato molte altre volte: guardo dal mio solito rifugio, seduta su una pietra accanto alle mura. L'erba è alta. Penso a certi miti amazzonici per cui sono gli alberi a tenere su il cielo, impedendogli di cadere. Eppure la pioggia lo disfa in un'intimità. L'ho scritto, lo ripeto per provare a dirlo con efficacia. Giriamo sempre intorno al solito punto, in un avvicinamento fra la mente e il mondo. Quando vengo qui, la solitudine è buona ed è come entrare in uno dei miei sogni migliori. Il rumore dell'acqua è ovunque. La Bure che non mi abbandona. Penso al gatto che ho perduto due anni fa, al suo corpo sepolto nell'orto, al suo spirito ovunque. Non si tratta più solo di amore e del dolore connesso. Penso allo sguardo dell'animale. Così misterioso, pacifico, selvaggio. A volte mi sembra di vedere come lui. E tutti i luoghi sono uno. Si radunano nel prato tutti i posti che ho chiamato casa. 


Ancora Thoreau, 19 marzo 1842: "Quando cammino nei campi di Concord, e rifletto sul destino della stirpe anglosassone, e sulle energie inesauribili di questo nuovo Paese a volte dimentico che quella che adesso è Concord un tempo era Musketaquid, e che la stirpe americana ha avuto lo stesso destino. Dappertutto, nei prati, nei campi di mais e di grano, la terra è disseminata di resti di una stirpe del tutto scomparsa, come se fosse stata calpestata su quella stessa terra. Trovo utile ricordare l'eternità che mi precede quanto quella che mi seguirà. Dovunque vada, ripercorro le tracce degli indiani. Raccolgo da terra un dardo che hanno lasciato cadere ai miei piedi, e, se penso al mio destino, mi ritrovo sul loro stesso percorso, calpesto quel che fu il loro focolare e dalle sue braci estraggo gli strumenti, semplici ma indistruttibili, per la capanna e la caccia. Ogni volta che pianto il mio granturco nello stesso solco che così a lungo fornì loro un raccolto, non faccio che cancellare parte del loro ricordo".

Qui non abbiamo un genocidio così prossimo e ancora in atto, come quello dei nativi sul suolo americano. Non trovo antiche frecce sulla mia via. Incontro resti d'altro tipo, di vite dismesse, anche se ancora presenti, come il metato stesso, come la traccia circolare del falò impressa nel terreno al centro della radura, ma anche come, se mi metto in ascolto, la presenza di tempi inconoscibili, che hanno fatto quest'erba, l'hanno conosciuta diversa, che hanno visto creature fragili e incostanti avvicendarsi. I luoghi ricordano. Indossano la loro memoria. Decifrarli senza reperti tangibili è una sfida che si pone all'occhio e all'udito. All'immaginazione. Come sarò ricordata nei luoghi? Come arriverò a chi camminerà o striscerà o forse, se ci sarà acqua nuoterà, dove ora io siedo?

"Chi tratta i suoi pensieri come materia, e sa costruire opere che deliziaranno le generazioni future, è lui a possedere l'energia vitale più grande e rara (6 maggio 1858)".


A questo vagare da ferma, ma nel bosco, si accompagna la rilettura recente de I salici di Algernon Henry Blackwood, scrittore inglese del primo novecento, esoterista e membro della Golden Dawn. La trama, narrata in prima persona, racconta di due amici in viaggio sul fiume Danubio, che si fermano a campeggiare su un'isola mentre l'acqua monta e diviene impraticabile. L'isola è abitata dai salici.

"La sensazione d'inquietudine che emanava quest'isola, ricoperta da un milione di salici, colpita dal vento forte, e circondata da acque profonde, colpì entrambi, credo. Non battuta dall'uomo, quasi sconosciuta all'uomo, era distesa sotto la luna, lontano dall'influenza umana, sul confine di un altro mondo, un mondo alieno, un mondo dominato dai salici e dalle anime dei salici".

Qualcosa di ostile alla presenza umana si muove nell'isola e non può essere placato, ma nemmeno ridotto alla forza degli elementi o di divinità più o meno antropomorfiche. Gli esseri, la trama degli esseri, che mostrano la loro intelligenza viva senza mai rivelarsi, è del tutto sovrannaturale.


Dirà l'amico svedese del narratore:

"Tutta la mia vita," disse, "sono stato pienamente cosciente di un'altra regione - in un certo senso non del tutto separata dal nostro mondo, ma comunque del tutto diversa - dove accadono incessantemente cose grandi, dove entrano in attività forze immense e spaventose, impegnate in compiti enormi se paragonati alle piccolezze terrene; la nascita e la caduta delle nazioni, le sorti degli imperi, il destino degli eserciti e dei continenti: è tutta polvere in confronto. Per compiti enormi intendo l'avere a che fare direttamente con l'anima, e non indirettamente con più espressioni dell'anima..."
"Tu pensi," disse, "che si tratti dello spirito degli elementi, e io pensavo che forse potessero essere gli dei. Ma ora ti dico che non è nessuna delle due. Queste sarebbero entità comprensibili, perché hanno relazioni con gli uomini, che sia per venerazione o per i sacrifici, mentre questi esseri che sono con noi ora non hanno assolutamente nulla a che fare con la specie umana, ed è una pura casualità che il loro spazio venga in contatto con il nostro in questo posto".

Senza alcun desiderio di sperimentare il terrore, è quel segreto non addomesticabile, quanto non può essere pronunciato perché non ha nome nelle lingue conosciute, che permane nei margini, nello spazio che all'improvviso può coglierci di sorpresa a causa del suo vuoto o dell'altro - un insieme di fantasmi e resti tangibili, che formano lo strato resistente sotto ogni paesaggio. Penso sia lì che per un po', prima di raggiungerci, si annidano le storie. Devono fare paura, all'inizio. Devono mantenere la loro memoria imprendibile, anche quando dette, per vivere. Mi alzo e lascio il metato alle spalle. Vado verso verso il paese. Le cose mi guardano, distrattamente.


Doomsquad, When the Dead Become Infants


Le citazioni provengono da:
Henry David Thoreau, Io cammino da solo. Journal 1837-1861. Traduzione di Mauro Maraschi, Piano B Edizioni
Algernon Henry Blackwood, I salici. Traduzione di Francesca Cavallucci, ABE Editore

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