mercoledì 11 dicembre 2019

Selvaggi di George Monbiot (Piano B edizioni)

Primo ottobre, due anni dopo aver scoperto che i tigli stavano ricrescendo nella gola di Nantgobaith, ci ritornai con un amico. Invece di seguire il sentiero sul lato nord del piccolo fiume, sul quale avevo trovato le foglie che indicavano questo luogo come un possibile frammento di foresta pluviale, scivolammo verso la scarpata scoscesa a sud della gola. Volevamo camminare dove nessun altro aveva camminato da anni, e vedere quali alberi stavano crescendo nella parte più impervia del bosco. 
Questo frammento primordiale deve la sua esistenza alla topografia: la terra è - o era - troppo ripida per essere disboscata e troppo pericolosa per tenerci le pecore. Sdrucciolavamo e scivolavamo nel morbido terriccio nero che ricopriva a malapena le rocce a cui si aggrappavano gli alberi. Sotto di noi un fiume ruggiva tra stretti passaggi e cascate. Se avessimo perso i nostri punti d'appoggio saremmo scivolati giù nella gola per restarci per sempre. Con le dita aggrappate alle radici esposte, ai fusti degli alberelli, alle scivolose rocce affioranti, scendemmo lentamente verso il fondo della valle. 
Una volta raggiunto il fiume prendemmo una via sui massi viscidi di muschio, avvolti nella nebbiolina sollevata da rapide e cascate. In poco tempo arrivammo a un bianco scivolo d'acqua tra due rocce. In piedi su una di esse, scrutavo cautamente oltre il bordo. "Non sarebbe meraviglioso" dissi "se vedessimo un salmone saltare tra le rocce?"
"Sarebbe stupendo."
"Ma dubito che corrano su questo fiume. E probabilmente è il periodo sbagliato dell'- oh mio Dio!"
Quasi l'avessi chiamato, qualcosa di bronzeo e luccicante s'inarcò fuori dall'acqua, non riuscì a raggiungere la cima della cascata e si rischiantò nella vasca sottostante.
"L'hai visto?"
"No, cosa?"
"È saltato un salmone."
"Stai scherzando."
"Guarda."
Un minuto dopo un altro pesce vibrò in aria. Ci sedemmo sulla roccia e tirammo fuori il nostro pranzo: per tutta l'ora successiva restammo a guardare salmoni grandi e piccoli sollevarsi dall'acqua, divincolarsi nell'aria come se vi cercassero un punto d'appoggio per poi precipitare di nuovo nel caos bianco da cui erano balzati.
Mentre si sforzavano di risalire, esaltato dal loro volo, trattenendo il fiato ogni volta che ne appariva uno, mi trovai rapito. Fu come attraversare il muro invisibile che mi separava dall'ecosistema, come se non fossi più un semplice spettatore, ma un suo abitante - come un orso forse, riemerso da un'assenza bimillenaria in questo antico spicchio di foresta selvaggia (che in effetti potrebbe essere uno degli ultimi luoghi ad averne ospitato uno), appoggiato sopra le cascate, con la bocca spalancata, la pelliccia fradicia di vapore e nella mente solo l'acqua e il pesce e le rocce su cui si trovava. 
È stato allora che mi sono reso conto che il rewilding, per me, era già iniziato. Cercando gli angoli di terra e acqua che potrebbero ispirare e guidare il tentativo di far rivivere il mondo naturale, avevo già risvegliato la mia stessa vita. Molto prima che i miei sogni di rinascita fossero realizzati, lo spirito indomito che avevo cercato di evocare era già tornato. Dotandomi della conoscenza del passato, immaginando un futuro più ricco e vitale, avevo bandito la mia noia ecologica. Il mondo era divenuto vivo - di significato e possibilità. Gli alberi mi mostravano i segni delle zanne degli elefanti; la loro sopravvivenza nella gola prefigurava il ritorno dei lupi. Niente era più come prima. Come quel salmone improbabilmente riemerso dal vuoto, le terre e i mari desolati erano ora gravidi di promesse. Sentii di appartenere al mondo, per la prima volta dopo anni. Sapevo che ovunque la vita mi avrebbe portato, per quanto tetri i luoghi in cui mi sarei trovato, quella sensazione - il senso di possibilità e attraverso la possibilità il senso di appartenenza - sarebbe rimasta con me. Avevo trovato speranza dove la speranza sembrava assente.

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