Dopo
aver visto il secondo capitolo della saga di Peter Jackson sullo Hobbit di
Tolkien, la nostalgia per il libro con la sua atmosfera fiabesca, poco
imparentata – sebbene rievocata nel primo film dai canti e dalla casa hobbit - con
le molte visioni eroiche, tetre e apocalittiche del regista, ha avuto il
sopravvento e così ho deciso di rileggerlo, a distanza di vent’anni. Rilettura
sì, ma libro nuovo e attraversato con tutte le altre letture conoscenze e
curiosità accumulate o dissoltesi nel tempo. Così, di ritorno per pochi giorni
in Inghilterra, ho acquistato la mia copia dello Hobbit in una libreria
indipendente nel nord di Londra, la Owl Bookshop nel quartiere di Kentish Town.
La scelta del negozio non è stata ovviamente casuale. C’è un gufo (owl) sul suo stemma, e come spesso mi
succede mi incapriccio di certi luoghi senza averli visti, a
causa dei loro nomi o della loro posizione geografica. Dunque ho scelto l’edizione
rigida con le illustrazioni originali di Tolkien, compresa la famosa sovracopertina
che riassume in sé i paesaggi del viaggio di Bilbo: le montagne, il fiume, le
selve, Bosco Atro, la luna e il sole
dell’autunno, le aquile e la sagoma rossa di Smaug.
Cominciamo
dalle illustrazioni: i disegni semplici di Tolkien sono i miei
preferiti, insieme a quelli realizzati da Tove Jansson per le edizioni
scandinave, probabilmente perché accentuano la dimensione orale in cui per
prima la storia vide la luce: non è difficile immaginare l’autore a sera, alla
luce del fuoco acceso, raccontare ai quattro figli le avventure di Bilbo e dei
Nani, inventandole così, nel formarsi della fiaba in punta di lingua. Stesso contesto rievocato al principio, nella casa dell’antieroe Baggins invasa dai 13 nani, dallo
stregone e da una mappa a lume di candela. Bilbo ci piace proprio per questo –
perché vive un’avventura suo malgrado, la sua presenza e la sue impreviste
fortune ci fanno sentire il conforto di un ritorno, della casa, con le
sue bevande calde e i libri e le coperte gettate sulle gambe mentre
fantastichiamo. Chissà che forse, come poi succede e ne siamo informati al
principio de Il Signore degli Anelli,
il motivo segreto per cui infine Bilbo si decide a divenire lo scassinatore
della compagnia e uscire dalla Contea, è proprio quello di poter scrivere,
infine, la storia, la sua Andata e
ritorno.
Poi, le
poesie, formule magiche che sospendono l’azione, ricordandoci che molto di ciò
che di bello accade ha un carattere sognante, contemplativo. Davvero le
montagne nebbiose e le attese e le paure dei protagonisti si profilano nell’oro
pallido di questi versi:
Far over the misty mountains cold
To dungeons deep and caverns old
We must away ere break of day
To seek the pale enchanted gold.
To dungeons deep and caverns old
We must away ere break of day
To seek the pale enchanted gold.
Lontan sui monti fumidi e gelati
in antri fondi, oscuri, desolati,
prima che sorga il sol dobbiamo andare
i pallidi a cercar ori incantati.
in antri fondi, oscuri, desolati,
prima che sorga il sol dobbiamo andare
i pallidi a cercar ori incantati.
E gli episodi che preferisco: l’inizio nel “buco”,
gli indovinelli di Gollum, la conversazione tra Bilbo e Smaug, Gandalf che
riappare tra gli uomini e gli elfi sulla pendice del monte – ma su tutti il
soggiorno presso Beorn e Mirkwood, Bosco Atro.
La figura di Beorn, uomo orso che discende
direttamente dal Beowulf inglese, dall’animale totemico d’Europa per
eccellenza, è un formidabile protettore ed emblema della vita animale: in sé
manifesta la cura e l’amore per i luoghi e per gli animali che li popolano e la
ferocia, talvolta incontrollabile, che è una parte inscindibile della meraviglia
naturale. Beorn offre inoltre a Tolkien l’opportunità di un’altra scena
domestica rurale, ben diversa dall’ospitalità favolosa di Rivendell (tra le cui traduzioni io opto per Forraspaccata, come
recita Lo Hobbit in edizione Adelphi, curato da Elena Jeronimidis Conte), dove
il tempo si ferma e in qualche modo si chiude fuori. Nella dimore di Beorn il
mondo all’esterno sa essere spaventoso; ma è oltre la porta di legno, la grande
tavola – pare di trovarsi in una di quelle stagioni di pioggia e tempesta, quando
tutto si scatena e tuttavia c’è un recinto di tregua nelle cose della propria
abitazione. È infine la caverna dell’orso – l’animale vi trova rifugio e
sicurezza, mentre l’inverno morde gli alberi e l’erba.
Bosco Atro, selva perigliosa, dove non
bisogna lasciare il sentiero, è forse il luogo che più mi rammenta il folklore
celtico di fate e spiriti, creature del crepuscolo e delle stelle, che amano
danzare e festeggiare, ma che diffidano
degli sconosciuti, diventando in parte temibili - coloro che, racconta l’autore,
non andarono nel Paese Occidentale, non accrebbero la loro saggezza o bellezza.
Ma certo si intrisero delle cortecce e dei margini boschivi e per loro più che
per altri la denominazione di Buona Gente (Good
People), riecheggia delle credenze popolari, per cui era utile rivolgersi a
fate ed elfi con eufemismi, lodi e appellativi gentili, onde non offendere i loro umori capricciosi e suscettibili.
La conclusione del viaggio, con le sue morti
e le lacrime di Bilbo, ha una valenza aggiunta rispetto alla sorpresa della
prima lettura. Citando dal saggio sulla Fiaba di Tolkien, “l’ombra della morte”
– così inscritta nel destino delle fiabe
– “può donare dignità e talvolta saggezza”. Esattamente quella con cui
Bilbo rientra nella Contea, e perde sì la reputazione tra i suoi simili, in
quanto figura strampalata, amica di stregoni e nani, ma per appropriarsi della sua
storia, il canto più duraturo tra tutte le poesie.
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