Libro di Hor nasce attraverso i sogni e soprattutto l'ascolto di certi luoghi, come di alcuni animali fra il mito e la natura, che sono scesi dalla loro montagna, per guidarmici dentro. A volte sono nati i testi, altre sono state le immagini di Ginevra a smuovermi, e sia le immagini che i testi sono scaturiti da un dialogo di anni fra noi sul significato di animismo nell'arte e nella vita. Riconoscere persone altre rispetto all'umano. Maschere. Voci. Apparizioni. Tracce. Per ascoltarle ho dovuto a volte isolarmi, accogliere ancora quel senso di dolore e di perdita che accompagna ciò che mi è più caro: gli animali, l'infanzia, questa storia di bosco e mare nordico che spesso prende nomi chiarissimi: Prataccio, Bure, Limentra, Mar di Barents, Aran, Inish Bofin, Lapponia, isole mai viste lassù nell'Artico; altre si sposta verso qualcosa o qualcuno che preme a est, da dove vengono i barbari, la radice selvaggia che sconfigge ogni cosa perché ogni cosa rinasca.
Le prose centrali, provengono dagli anni londinesi e dalle sere nel mio appartamento di Crouch End, nel 2013. Altre suggestioni dalla brughiera di Bodmin nella Cornovaglia interna, dove mi sono trovata nell'estate del 2017. Infine, le "voci", sono state scritte fra il 2018 e il 2019 nei luoghi appenninici dove abito. Nella Valle delle Buri ho composto le prime bozze, scrivendo durante alcuni laboratori che ho condotto nei paesi di Baggio, Iano, e nella "mia" Santomoro, che ha dato origine alla poesia sull'orsa. Forse perché, affacciandomi dalla finestra di casa, immagino spesso la collina davanti a me come l'enorme caverna di un orso primordiale.
Sono poi salita a Torri, nella Sambuca Pistoiese, il paese del ramo paterno della mia famiglia. Ho pensato, in un gioco che faccio fin da bambina, che da qualche parte, salendo tra il Calvario e il Lavacchio, sarebbe possibile perfino affacciarsi sul mare. Un mare magico, ruvido, portato dal vento nelle abetaie, un mare sonoro, come un'eco, lo sciabordio di esistenze dimenticate. Lamenti. Quando si arriva là, significa che si è imparato a perdere tutto, che è infine l'unico insegnamento della poesia.
Hor è l'altro me, si sveglia quando io dormo, esce da un labirinto di mostri e buio, cammina nella nebbia, fra le rocce. Ogni volta che sale alla montagna smarrisce il tempo nello spazio, lo trasforma nelle creature che lo spiano dalle tane perché lui si fletta nelle loro storie. Hor abita la riva, la soglia fra l'immagine e il verso, fra i corpi, che siano animali o vegetali. Abita la capanna cadente, la pioggia che trasforma l'estate in inverno. O nel suo ricordo.
Ho quindi pensato questo libro come una mappa che esce dalle immagini di Ginevra, che detta nelle parole. Ne riconoscerà i sentieri chi tiene un diario dei sogni e lavora nel loro buio per incontrare guide. Nella mappa di Hor si trasfigurano morte, magia e memoria; i luoghi diventano altro, aprendosi attraverso polle nere, che sono poi l'Acquabuia di un altro mio libro, perché tutto si tiene e tutto fa parte di un discorso circolare. Si entra e si esce dalla polla o dalla tundra o dalla ciminiera di una vecchia fornace che è stata un tempo una caverna di graffiti e flauti d'osso. Si entra e si esce attraverso le code o le cortecce. I morti sono più vivi dei vivi.
Nelle immagini, fedele al fatto che ogni luogo può mutarsi in un altro, l'entrata della grotta di Planina, in Slovenia e i suoi dintorni.
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