Pubblico integralmente il mio scritto per il primo numero (gennaio-febbraio 2016) del giornale dell'Associazione Palomar. In attesa di Pistoia Capitale della Cultura 2017, mi pare opportuno.
L’8
luglio 2015 presso Villa Stonorov ha aperto i lavori del convegno Palomar e la città l’incontro
seminariale: “Crescere ai margini: la poesia, i territori, l’ascolto negli anni
zero. Quindici anni di resistenza tra l’Appennino Bolognese, Pistoia e Firenze”.
Coinvolti alcuni curatori di importanti manifestazioni legati alla poesia sul
territorio: Vittorio Biagini (Associazione Laboratorio Nuova Buonarroti,
Firenze), direttore di Voci lontane, voci
sorelle, festival fiorentino di portata internazionale, di cui si è svolta
questo settembre la tredicesima edizione; Daria Balducelli curatrice insieme ad
Azzurra D’Agostino (Associazione Sassiscritti, Porretta Terme) del festival
appenninico di poesia e canzone d’autore L’importanza
di essere piccoli, quest’agosto alla sua quinta edizione e da due anni
presente anche nel comune di Pistoia per una data al Castagno; me medesima, in
qualità di ideatrice del piccolo festival di poesie, Perché tale è la mia natura, che si è svolto per due edizioni a
giugno, presso il circolo Arci Le Fornaci a Pistoia; Nicola Ruganti, moderatore
e presidente di Palomar, l’Assessore alla Cultura Elena Becheri e la Presidente
della Commissione Cultura del Comune di Pistoia, Rosalia Billero.
I
territori interessati sono vicini geograficamente e culturalmente e i festival
e le iniziative promosse dagli operatori, che sono spesso poeti loro stessi,
vanno a formare un calendario di appuntamenti estivi, con varie anticipazioni, iniziative
collaterali, laboratori di lettura e scrittura durante il resto dell’anno. C’è
inoltre una comunanza di intenti e di sentimento: la comunità assente, che non
riescono a intercettare né a ricreare istituzioni attente per lo più ai dati
numerici, ai grandi eventi e non al lavoro di ricerca, al valore sovversivo del
gesto artistico e dunque alla naturale vocazione minoritaria delle arti tanto
più sono autentiche, rinasce nei contatti e nella stima reciproca di chi si
impegna per portare la parola nell’esperienza dei luoghi, dei lettori e dei
curiosi, della gente di quartiere, delle realtà periferiche. Siamo lontani dai
salotti patinati, da un’idea elitaria della letteratura o meglio se alla fine non
sono certo le masse a essere raggiunte, ma un gruppo di individui, più o meno
vasto, che inizia a camminare in quel bosco potente e ignoto del linguaggio, questo
non è affatto composto da addetti ai lavori, ma da un’insieme imprevedibile di esseri
umani che hanno sete, anche se magari non lo sanno, di vedere il mondo
attraverso altri occhi, di commuoversi, magari, per il mondo non più tanto
banale eppure semplicissimo, in cui si trovano a vivere. Anzi si potrebbe
rimanere sorpresi da quanti pochi docenti scolastici, accademici, per non
nominare gli impiegati dei vari uffici cultura e simili facciano capolino.
Perché
la poesia, perché portarla nei territori con la grande fatica di un lavoro
quasi sempre poco retribuito, se non addirittura volontario? Il lavoro
culturale infatti è caratterizzato dal costante precariato, da stipendi
inesistenti o ridicoli, a meno che non si sia appresa bene la lezione italiana
accodandosi al professore giusto, magari accettando di chiudersi fuori dal
mondo dei vivi dentro le teorie senza piedi, chiudendosi perfino fuori dal mondo
di quei libri che ridono e piangono e si concedono perfino di errare, perché si
mescolano con le traversie dell’esistenza di ognuno, scrittrice, lettore,
passante. Si continua non certo per dimostrare o aspettarsi qualcosa dagli enti
che, nel migliore dei casi, assumono un atteggiamento assistenziale o
celebrativo, non comprendendo che a nessuno di noi interessa sentirsi dire
quanto è bravo – ci interessa, come a ogni essere umano, poter lavorare e
lavorare bene, condividendo quanto sappiamo fare. Piuttosto il senso di quanto
viene fatto sta proprio nell’ineluttabilità della poesia o delle poesie,
declinandola in infinite varianti, in quella natura a cui non ci si può
sottrarre, come ho cercato di mostrare con il titolo della mia rassegna
pistoiese, esattamente come non si può smettere di respirare. Il senso sta
anche in quel bisogno sempre più chiaro di condivisione, di quel particolare
nutrimento che aumenta se aumentano i conviviali, che si rinnova
nell’immaginazione, nelle terre dell’arte, ricordandoci che tutti e cinque i
nostri sensi sono doppi: annusiamo, assaggiamo, tocchiamo, ascoltiamo, vediamo
con il cuore oltre che con gli organi preposti dei nostri corpi. E
l’intelligenza del cuore va costantemente allenata alla curiosità come
all’attesa di una parola diversa che tiri fuori la meraviglia dalla bruttura.
Quello che accade quando una persona come noi cerca sostegno economico e
appoggio presso gli enti di questo paese sciagurato, è spesso umiliante: ci si
aspetta con qualche illusione di essere accolti e di poter strutturare progetti
per il bene comune, si trovano tempi di attesa ridicoli, l’ignoranza supponente
di chi magari un posto fisso statale ce l’ha e non può perdersi dietro ai pazzi;
o peggio si trovano parole sciocche e condiscendenti di direttori, dirigenti,
amministratori che hanno davvero confuso gli organi di senso e le loro
funzioni. Più rari sono gli esempi di istituzioni attente e solidali, e in quei
casi le economie sono sempre scarse. E tuttavia accanto a questo scenario poco
rassicurante nel tempo abbiamo imparato a riconoscerne un altro, fatto di
comunissime persone - abitanti di frazioni montane e collinari, tagliati fuori
per età o locazione dai contesti urbani; ragazze e ragazzi che per loro conto
hanno voglia di leggere e scrivere ben oltre i compiti scolastici e sanno che
nei libri ci sono persone in carne e ossa, alleati, avversari, guaritori;
individui che per caso capitano ad ascoltare una poesia e poi non sanno più
farne a meno, perché le parole erano strane e il luogo bello, perché,
parafrasando quanto pochi giorni fa mi ha detto una compaesana, la stanchezza e
le difficoltà della vita non si alleviano andando a dormire, ma provando a
raccontarci qualcosa di nuovo prima di prendere sonno.
Conosco
molto bene le persone invitate al tavolo, alcune sono tra le mie amicizie più
care e leggo le loro poesie con la gioia di incontrare qualcosa di mio che
credevo perduto, ad altri devo l’esordio nel panorama letterario e il
preziosissimo primo insegnamento per cui i veri maestri sono coloro che ti
permettono di prenderti tutta la responsabilità dei tuoi dubbi come delle tue
scoperte, che non mettono su un broncio stizzoso quando lasci il nido. Conosco
soprattutto il desiderio di apertura e le capacità di gente come Vittorio,
Azzurra, Daria. Tutti noi vorremmo che questo primo momento estivo fosse solo
l’inizio di un processo di emersione di quanto già esiste: un dialogo costante,
attraverso le pagine scritte e attraverso le voci, dentro cui nessuno parla più
forte di un altro e dove il territorio non è frutto di una delimitazione geopolitica, ma il posto segreto in
cui ci avventuriamo riscoprendolo luogo d’origine e d’approdo, una casa con le
porte aperte che dà sulle nostre montagne come sulle vie urbane. Tuttavia per
non perdere l’entusiasmo occorre quel minimo di risorse per sopravvivere, e per
dire casa un luogo occorre sapere che
sei accolta, altrimenti vai altrove. L’augurio è che il nostro altrove inizi
proprio dove si è deciso di tornare o dove da sempre con coraggio ci si inventa
una vita.
Francesca Matteoni, Santomoro, novembre 2015
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