“Soprattutto,
esistono i liombruni?”
è la
domanda che ricorre per tutta l’opera di Giovanni De Feo, L’isola dei liombruni, romanzo “gotico mediterraneo”, per restare
nell’azzeccata definizione dello stesso autore, ambientato tra il mondo della
veglia e quello del sogno, durante la fine dell’estate su un’isola
mediterranea che ha qualcosa di tutte le terre e isole infantili delle
vacanze.
Liombruno
è il protagonista di una fiaba popolare lucana, un tredicenne consegnato dal
padre al “Nemico” (o Diavolo), in cambio di una pesca fruttuosa e riscattato e amato da una fata. Il nome,
rimasto nella mente dell’autore come una suggestione epifanica, acquista nel
libro un doppio significato: da una parte l’isola è abitata da bambini e
adolescenti; dall’altra i liombruni sono animali dal corpo sinuoso, a metà tra
donnola e gatto, e dagli occhi d’oro. Crescono di numero e non possono essere
uccisi. Sono il mistero ultimo, muto dell’isola.
Fino al risveglio, la vicenda tiene in sé e dona
una luminescenza nuova a figure e mondi letterari, che mi interessa qui
analizzare. Si comincia dai nomi dei ragazzi che spesso suonano bizzarri,
arcaici.
Nel
sogno l’identità subisce un rovesciamento: ciò che i protagonisti sono nel
quotidiano decade, lasciando affiorare la personalità e il carisma che
vorrebbero, la loro anima più selvaggia, meno imbrigliata da convenzioni e
imbarazzi. Così mutano i nomi e appaiono Canio, Ascadeo, Sapia, Cannarone,
Granizia, Cecella, Creso, Mase, Renzolla,
Noviano, Cagliuso … eppure, con l’eccezione di Zenzero e Smiccio, gli
appellativi non sono affatto inventati. Provengono infatti da Lo cunto de li cunti di Gianbattista
Basile, scrigno di storie della tarda età moderna, da cui tutta la tradizione
fiabesca letteraria d’Europa ha attinto. La storia è dunque anche una fiaba
senza eroi - l’eroe fantasma che respira ovunque è, semmai, l’adolescenza - in cui non accade molto, ma ciò che accade è,
citando Peter Pan in procinto di affrontare la morte, an awfully big adventure: una straordinaria avventura. E proprio
l’immaginario che nutre il Peter Pan di J.M.Barrie si riversa copiosamente nel
libro. In fondo, e De Feo sembra saperlo bene, noi non facciamo altro che
rivivere le nostre memorie, anche quando queste ci piovono dentro da un libro.
Quando inventiamo siamo in realtà a dialogo con un’ossessione che è nostra come
di altri, da altri detta, prima di noi. Ma è appunto l’io che inventa o, nell’opera,
Zenzero, che sceglie cosa ricordare, a fare la differenza. Così se l’Isola
Chenoncé si avverava in sogno, anche l’isola del romanzo ha una nuova vita
onirica, dove non c’è spazio per essere grandi. L’aspetto implicitamente
inquietante di Peter Pan, suggerito ad esempio dagli incubi notturni
che lo tormentano o dal suo stato di “ragazzo tragico”, qui si ibrida allo
scenario de Il signore delle mosche,
prendendo consapevolezza di sé. I pochi adulti superstiti vengono chiamati Alti
e sono preda della furia omicida dei ragazzi; la morte ha un posto di tutto
rispetto sull’isola, ma ovviamente anche lei soggiace alle regole del sogno.
Ricorderemo come il Peter vestito di foglie secche, privo dell’ombra (o
dell’anima), guida spettrale di bambini morti, riportasse la primavera e
provocasse l’inverno con la sua assenza: questo ruolo semidivino viene svolto
sull’isola di De Feo dagli scalzi o senz’orme, che camminano “più lievi delle
ombre” e incarnano ogni fenomeno
naturale di quella terra – dalle stelle ai fiori, ai cani, alle schegge di
pietra.
Anche
nell’isola i ragazzi muoiono, andando a nutrire le genti subacquee di
Marchionno, scalzo dei morti; oppure vengono scelti da altri scalzi per
divenire come loro: senza ombelico, con piedi trasparenti e vitrei, occhi
d’argento - creature che non hanno più alcun legame con il mondo al di là della
breccia dei sogni. Il corrispettivo femminile degli scalzi sono le sibille, che
vedono, pur avendo occhi ciechi, e aprono
così un varco tra le due dimensioni. De Feo conia felicemente il verbo
“imbestiare”, per indicare lo stato che precede la muta in scalzo o sibilla: i
ragazzi e le ragazze imbestiano commettendo suicidio o restando incinta e
abortendo nell’acqua del mare (il grande mare sconosciuto e accogliente del
sonno) che risana ogni ferita. Perché sull’isola i ragazzi non giocano e
uccidono solamente, ma amano nell’unico modo a loro concesso, di un amore
ardente ed effimero. L’imbestiare dunque si traduce nel cedere a una passione,
facendosene possedere, adempiendo a un destino profondo, perfino anteriore alla natura fisica e attuale dei
protagonisti. Dell’adolescenza emergono tutti gli aspetti più
sanguigni: l'ebbrezza, i moti violenti, la scoperta del sesso, l’uccisione dei
padri e delle madri, il desiderio di fermare quel momento in cui è
ancora estate ed è sottile la cortina che divide il gioco, il capriccio, la
gioia selvaggia, senza interrogativi, dalle responsabilità, la dimenticanza,
l’amore degli adulti.
Negli
scalzi si avvera il sogno poiché i ragazzi che erano non solo non cresceranno
mai, ma, con una soluzione radicale, non saranno mai esistiti. Si fanno essi
stessi pura trama onirica. E il sentimento difficile, di nostalgia mista a
rancore, diretto alle madri nelle storie di Peter Pan, assume qui tutt’altra
valenza: gli adulti sono imperdonabili perché non sanno ricordare. Archiviano,
chissà dove, sotto quali acque salmastre, l’essere stati, una volta, bambini e
poi ragazzi. Forse tentano di proteggersi da uno struggimento che rischia di
ripiegarsi su di sé, facendo dell’antico bambino una caricatura grottesca.
Penso allo scalzo più spaventoso, Cuosemo delle ombre, incarnazione terribile
dell’ombra della fiaba anderseniana, in cui un uomo e la sua ombra tentano un
rapporto paritario fino all’agghiacciante scambio conclusivo. Come si può
restare fedeli all’adolescente, al bambino e non allungarsi sgraziati nella sua
ombra, crescere, riconoscendo ogni esperienza?
Se come
ha scritto Cristina Campo: “Il
cammino della fiaba s’inizia senza speranza terrena”, la fiaba è anche la via
impossibile che ci porta nel mondo. Disegna per noi un altrove che è la somma
delle nostre paure, perdite, aspirazioni e da cui dobbiamo venir fuori. Ma si
può, forse si può, percorrere al contempo due mondi, trovarla, la speranza. Questa
possibilità sta nell’accettare che una buona parte di ciò che ci fa vivi ha
dimora nella terra dei morti, della memoria a venire. È con questa difficile
speranza che chiudiamo questo libro prezioso e intimo, guardando l’ultimo
liombruno uscire nel sogno, dal torace dell’ultimo ragazzo semidivino e morto. Non
sappiamo se i liombruni sono anche qui, nelle città e nei luoghi dove si
frequentano scuole, si abbisogna di un impiego, si tace la propria inquietudine
seguendo i dettami del senso comune. Ma è certo, qualcuno non smette di
cercarli.
PUBBLICATA SU LANKELOT.
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