mercoledì 17 luglio 2013

Note su La lucina di Antonio Moresco


Ogni opera d’arte ha in sé un mistero. Questo mistero non si risolve – nel momento in cui fosse completamente scandagliato, l’opera avrebbe esaurito la sua possibilità di parlare. Piuttosto si rifrange in molteplici eco, affiora e sparisce in egual misura in chi lo accoglie.

Anche il mistero de La lucina di AntonioMoresco è insieme una sparizione e un affioramento.

Al centro del libro un uomo, di cui non sappiamo nulla, che si rifugia tra i borghi desolati di una montagna “per sparire”, come dichiara nella folgorante apertura: che cosa sia in effetti questo sparire non è mai detto, il protagonista stesso probabilmente lo ignora fino all’ultima pagina. Coincide con la minaccia del terremoto, che scaccia gli abitanti dai monti e si palesa con piccoli smottamenti durante la narrazione. Coincide con un ostacolo, dato dalla conformazione aspra, la selvatichezza del paesaggio montano; con il farsi dell’immaginazione che leopardianamente cresce per sporgersi oltre un impedimento, viene a noi e da noi proprio perché affetti da un perenne difetto della vista.

Un atto immaginario sono, per esempio, le varie domande che scandiscono i dialoghi dell’uomo con gli animali e la vegetazione attorno – al posto della luna del pastore delle steppe asiatiche qui troviamo i rospi bitorzoluti; le bellissime, effimere lucciole; le rondini, le uniche, a dire il vero, da cui proviene una risposta, comunque irraggiungibili nel volo a perdifiato della loro gioia. Troviamo un universo naturale stratificato, in continuo sgretolamento e riproduzione, di cui l’uomo è una solitudine emersa, via via più consapevole nel coro. Pochi gli umani che si aggirano sulla montagna - individui caratterizzati dalla loro marginalità, come la proprietaria della bottega immersa nel tanfo dei gatti o l’allevatore straniero che riacquista un linguaggio comprensibile solo per discutere di avvistamenti alieni tra le cime. E in effetti l’inesorabile spopolamento delle montagne ne fa giganti ostili e affascinanti: l’essere umano che vi si accasa, deve alienarsi dalla dimensione urbana del convivere e condividere spazi, riconoscendone un’altra dove il tempo calcinato nei ruderi dei boschi si mescola all’assenza dei corpi stellari che noi percepiamo in lenta differita come luce. C’è un oblio nella montagna e un risveglio. Ma quest’ultimo è del tutto imprevedibile nella sua forza primitiva.

Avvisaglia di questo doppio movimento è forse la comparsa di un cane nero dalla grossa testa e le zampe spezzate, che segue l’uomo fino al cancello di casa dopo una passeggiata serale e ci lascia con il dubbio: è un compagno o un avversario?  E dove si traccia il confine tra la materia tangibile del reale e quella sfuggente delle peregrinazioni mentali? Qualcuno infatti ricorderà che è un cane a sorvegliare le porte del mondo infero. E un cane nero, in tanto folklore, è la manifestazione fantasmatica più comune dei morti inquieti.

Ogni notte, alla stessa ora, l’uomo vede accendersi sulla cima di fronte una lucina. L’alone di un fantasma. Incuriosito e ancora una volta impedito da rami, tronchi e sterpi nel suo sguardo, decide di recarsi lassù, per scoprirne l’origine. Ad accenderla è un bambino, che vive tutto solo e ha paura del buio. Il bambino indossa abiti che non usano più, frequenta la scuola serale, si cucina i pasti, fa il bucato. Sembra, soprattutto, uscito da un’altra epoca, un altro mondo. Come ne Il piccolo principe di Saint-Exupéry, l’incontro con il bambino innesca nel protagonista ben oltre il desiderio di protezione, un progressivo rispecchiamento. Chi è davvero quel bambino sperduto e sicuro dei suoi gesti in un luogo tanto impervio? La vetta dove abita sorge davanti a quella dell’uomo, due masse di roccia e ritmi vegetali da una stessa madre, che trema qui, svela la precarietà di ogni superficie, la crepatura da cui l’interno sgorga. Dentro una montagna, in una nota leggenda, vanno a scomparire per sempre i bambini di una città ingrata, attratti dalla musica di un pifferaio.

Leggendo, allora, ho sentito di trovarmi davanti ad un tipo di sparizione che inizialmente non avevo contemplato. L’uomo adulto che ci guida in prima persona nel libro lascia il posto ai lineamenti di un’infanzia, forse la sua propria, ritornata come si ritorna dalla morte, non si smette di esserci. Aldo Capitini scriveva della compresenza intima dei morti e dei viventi. In questa straordinaria opera di Moresco, tale compresenza è infine il mistero. Ciò che unisce l’uomo e il bambino, una luce che brilla da una zona mortale, perché la vita si tenga, sappia di se stessa.
F.M.

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