domenica 23 settembre 2012

da Ruggine (2012), di Marilena Renda

Gli abitanti ascoltano i battiti del bosco,
arrotano le gote, inghiottono i soffioni;
hanno lasciato il burrone del vento mangiare
il cadavere della città e gli spiriti di casa. Hanno
la bocca piena di mosche. Hanno la neve e un pasto.

Gli abitanti della città non temono i fantasmi;
le meduse hanno mangiato la polpa di conchiglie
cotta per i neonati; se gli uomini vogliono pane,
gli lasceranno i semi; se vogliono tornare,
dovranno fabbricare la strada del tornare.

Ieri una cucina, un cappotto, un tappeto,
un armadio di lane messe a maturare,
uno spicchio di luce, un campanile,
un arrotare di lame, un seme, una gallina,
un pane che gonfia sotto le coperte.

Oggi una spedizione alle mura, un'allegria di internauti,
un sentimento archeologico del tempo-cassaforte,
un seppellire domestico per poi disseppellirlo:
conficcare viscere nei vasi, aprire la bocca ai morti,
che disporranno del loro corpo ancora e presto.


(brevissima nota, su una lettura che ancora mi sta accompagnando)

Ruggine è uno splendido poema di Marilena Renda, ispirato alla tragedia del terremoto del Belice, nel 1968, da poco pubblicato da Le Voci della Luna.
Ruggine, ma anche sradicamento, rovesciamento, casa-corpo che si sgretola e deve tastarsi per ridefinire i suoi contorni, traslarsi in un mondo di immaginazione (non è dall'immaginario che sempre ci sporgiamo verso il reale, per capirlo, per rendercelo meno ostile?), per rammendare i suoi vivi-fantasma con i suoi morti veri, duri come l'osso, la pietra scanalata del trauma e della risalita. Marilena è davvero Dorothy, scaraventata nell'uragano e in un viaggio spaventoso, ma anche fantastico, in cui ascoltare le voci dei propri compagni (bambini-leone, creature di latta, uomini in pezzi di paglia e polvere), conta quanto saper seguire un sentiero.

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