lunedì 2 aprile 2012

Barca a remi. Appunti sul lago



La musica dei Sigur Rós fa emergere un tempo infantile, il suo rimescolarsi di lingue inventate, di sogni, di preziosissimi oggetti e ore del giorno da fissare nel calendario della mente, dove altri non vedono che carabattole e normale quotidianità. Tutto sembra espandersi come sotto una pellicola liquida, perfetto nelle sue vite specchiate, lungamente abbandonate.

(Resta com'eri una volta, coperto di giunchi, Czeslaw Milosz)

"Barca a remi" nel centro di acque lacustri, oltre i canneti ed i ciottoli. L'ora è il tramonto in estate o nel primo autunno. Sono parte di un coro e questo coro è il paesaggio - così grande, così prima di me - mi chiedo dove ho sepolto, tracciandoli, i segni della mia infanzia? Quale fruscio, quale pietrisco sono diventati?


[C’erano nel lago molti segreti trasparenti. Ti chinavi per berli. Scendevi fino al centro con le vecchie scarpe militari, slacciate. I pesci ti salivano sulle mani, erano pesci antichi, fatti di terra e crepe al posto delle squame, si compattavano nel fondo. Gli occhi implodevano lenti. Il lago s’incuneava nella ghiaia.]

Un lago scandinavo, a nord-est. Pikevannet, "acque della ragazza", a Sollia nell'agosto 2008, io e T. prossimi al confine con la Russia, che un giorno abbiamo quasi raggiunto, camminando lungo l'unica strada scavata tra i sempreverdi, fermandoci a pochi passi dallo sbarramento. Molto silenzio. Un paese straniero è una lingua, ma se nessuno parla, se niente si muove, le nostre lingue si placano nelle onde - non siamo diversi da ciò che attende nascosto tra la vegetazione. Un villaggio in lontananza, scorto tra i nugoli d'insetti e le pietre muschiose. Una renna libera che esce dalla boscaglia.

Nuvole per tutto il cielo, temperature già autunnali - siamo sperduti nell'estremità orientale della Norvegia, dentro un bungalow di legno prefabbricato. T. è a disagio in quella solitudine, io invece leggo i racconti di Dagerman al piccolo tavolino, me ne esco nel pomeriggio per vagare nella tundra niente affatto monotona, quel suo stupefacente silenzio, quella sua indifferenza a tutto in ascolto di tutto, i fiori rosa acceso, alcune funghi di amanita muscaria brillanti e lucide nella loro testa rossa sul terreno, l'idea degli animali. Sento una risposta nell'essere estraniata dalla gente, percorrere con gli occhi la superficie del lago, immaginarvi un corpo umano che una volta si è sciolto, disteso - ha rilasciato ogni verbo nelle correnti. Acqua, spazio non strutturato, vocalizzi, tonfi, tentativi di rumori.




Il suolo infinito sotto di noi.


L'acqua brilla tra gli alberi.


Il lago è una finestra nella terra.


Tomas Tranströmer

*****

Poi l'altro lago, un pomeriggio d'ottobre del 1994, a Pocono in Pennsylvania. La casa sulle sue sponde appartiene a parenti di mia zia, immigrati da bambini in Argentina e ritrovatisi per lavoro a New York, dove vivono a Brooklyn, in un grande appartamento su più piani sopra il loro negozio di tessuti. Trascorriamo tre giorni, un fine settimana, nella casa di Pocono, dove io fantastico sulla mia America scomparsa della tribù dei Lenni-Lenape, meglio nota come Delaware che aveva popolato quella parte del paese fino all'arrivo dell'uomo europeo, prima di essere costretta a migrare verso Texas e Canada alla fine del Settecento per tentare la sopravvivenza. L'estate indiana disperde l'ultimo caldo sui boschi vividi di giallo e arancio, chini sulla strada principale e sul lago. Mia zia, il nostro ospite ed io remiamo nella canoa, quasi al centro delle acque - quando alle mie spalle c'è un tuffo, l'alzarsi di pochi schizzi, mi volto per riuscire a vedere la coda e parte del corpo di un castoro che si spinge sotto di noi. La scoperta, anche fuggevole, di un altro animale è sempre il momento migliore delle storie. Questa terra, come sostengono i nativi americani, non appartiene a nessuno. Questa terra è fatta di mutua meraviglia, di coabitazione ignara, di strati che si chiamano invasione, sopraffazione, esilio, specie che si estingue – si solidificano, poi si staccano come brani di ciarpame da una tela fluida, si lasciano attraversare da un essere altro, affacciato per un attimo dall’oblio. A volte mi sembra di vedere la me bambina, che certo non potrò mai incontrare fuori dal nido della mente, rivestita di pelliccia o di piume o di strati di pelle impermeabili, che mi fa cenno, prima di immergersi nel suo tempo invulnerabile al trascorrere. Esplora un'acqua contenuta eppure insondabile, perfino pericolosa più delle masse marine anche per il nuotatore esperto.

Procedo nell'aria crepuscolare. Intorno a me ciò che ha la resistenza della pioggia sedimentata, del sangue che scolora, del pianto, delle cime riflesse di alberi nuovi - della sete dove affondo, un incontro, un colpo di remo.

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