domenica 25 marzo 2012

glassware



1. Dodici giare vuote, una per ogni mese, un calendario. Incisi sul vetro trasparente a caratteri gotici i nomi dei liquidi corporali  - sangue, lacrime, vomito, olio, saliva, sudore, seme, latte, muco, diarrea, pus,  urina. Questo è come sopravviviamo. Come moriamo. Le giare assomigliano ai bottiglioni di medicinali nelle antiche farmacie. Le sostanze sono evocate dai nomi e nascoste nella trasparenza dei contenitori come nel privato dei corpi. Vedi. Immagina. L’istallazione di Kiki Smith risale alla fine degli anni Ottanta – ho immediatamente ripensato alla pagina di catalogo dove l’avevo trovata, guardando due ampi scaffali di giare usate in laboratori medici, parte della collezione di Henry Wellcome, a Londra. Dal taccuino: “bottiglie, caraffe, alambicchi, bellarmine, vasi, recipienti bizzarri - svuotati, ospitano il getto della luce artificiale. Colli e busti.”

2. Prendere una bottiglia, una bellarmina, raccoglierci l’urina della vittima di un maleficio  – aggiungere capelli, pezzi d’unghia, brandelli di stoffa del vestito tagliati come un cuore. Stiparla di spilli, spine, chiodi, ferri curvi. Sigillarla e seppellirla – oppure scaldarla sul fuoco. Joseph Blagrave: “c’è una parte dello spirito vitale della Strega in essa, perché tale è la sottigliezza del Diavolo, che non permetterebbe alla Strega di infondere alcun veleno nell’ uomo o nella bestia, senza che una parte del sangue della Strega stessa ci fosse mescolato”. L’urina è escremento del sangue, dei suoi quattro umori, sovrabbondanza acquosa che l’organismo espelle, impregna della sua malattia. La bottiglia della strega è un corpo che, senza volerlo, ne sopporta un altro al suo interno: lo infiamma e lo dissecca, gli dà sepoltura fino alla ruggine lo manifesta.

3. Old kettles, old bottles, and a broken can, /Old iron, old bones, old rags (…) – Vecchi bollitori, vecchie bottiglie ed una latta rotta, /Ferrivecchi, ossa vecchie, stracci vecchi, tutto proviene da qui. Messaggi impossibili sedimentano sul fondo. Leggerli come foglie di tè, linee, materia sbreccata, diffratta. Al fondo si è immersi, si fa un catalogo dei resti.

4. Sono al cinema, ho quattro anni. I topi trovano una bottiglia, ne traggono una lettera – la richiesta di aiuto di una bambina orfana,  dai capelli quasi del mio colore, i pennelli, per questo, intuisco, si chiama Penny. Scivola, in camicia da notte e pantofole, per gettare la sua bottiglia magica, la sua bottiglia della fiducia, della speranza, giù dal balcone nel fiume che esce dalla palude. Non sa chi potrà recuperarla. Se finirà in un’acqua più grande, in una balena, triturata dai motori delle navi. Certo non indovina che non saranno esseri umani come lei a recuperarla, tantomeno adulti, ma animali piccoli, considerati quasi spazzatura nella grande città, per cui sono peste le cose che zampettano sui pavimenti. Penso che anch’io vorrei mettere cose nelle bottiglie, ma non c’è acqua sotto il mio balcone e non sono in pericolo. Sono salva? Bevimi. Deciframi. Io sono questo messaggio, il destinatario è ignoto fino all’ultimo, finché sarò di nuovo nel buco con un orso di pezza malandato, un secchio, un sasso che fa molta luce. 

5. Sulla spiaggia raccolgo le conchiglie, i sassolini. Le onde fanno la loro pulizia, intorno. Poi trovo il pezzo verde. Non so cos’è all’inizio. È ispessito, smussato. Ha quasi la mia forma preferita, quella del cuore. Dice mia madre: è un frammento di vetro, verde smeraldo. Magari, aggiungo io, è proprio uno smeraldo! Più facile una bottiglia, mi risponde. Certo. La bottiglia di Penny, di un’altra Penny dispersa, tutte le sue parole si sono rastremate in granuli di sabbia, compattate nel mio oggetto prezioso. Lo ripongo nel borsellino di tela. È arrivato a me – lavato, espulso, donato. Lo osservo nel tempo, lo seguo fino alla spezzatura, l’inizio. Lo scrivo.

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