Ieri, in serata, cercando immagini sugli sciamani nella Siberia contemporanea, mi sono imbattuta in questa storia, dove una sciamana dal volto coperto dal costume tradizionale, racconta della sua vocazione e dell'arte di sciamanizzare. Nell'intervista si fa chiamare Alya. La lingua originale è il russo, qui tradotto in inglese; le cose che dice sono senz'altro note a chi ha letto di sciamanesimo artico-siberiano: l'abitare la soglia fra i mondi; avere animali guida (nel suo caso la martora e il gufo bianco), tra cui il più potente è senz'altro l'orso, animale totemico del nostro emisfero; esperire più volte la morte, fino a tenersela al fianco con distacco; il potere evocativo della preghiera rituale; la presenza in alcune tradizioni di un guaritore per famiglia; l'ereditarietà.
Ciò che però io non sono riuscita a smettere di guardare sono quei pochi minuti di rito nel video, dal minuto 3.45 finché non inizia a parlare. Tamburo, offerte d'erbe e cibo al fuoco, danza, suono di campanelli che scacciano gli spiriti maligni, straordinari abiti tradizionali che non servono solo a coprire dal freddo, ma anche a favorire la trasformazione e il dialogo con la natura. Mi è apparsa come una delle udegan di Carolyn Hillyer, donna magica del Dartmoor. Tutto in lei è mascheramento, mistero, perfino trucco e artificio perché ogni vero sciamano ha qualcosa del trickster. Mi ha colpito quello che dice sulla paura - lo sciamano non deve avere paura di niente. Non perché è uno sciocco, ma perché, io credo, conosce il valore della paura e lo porta in sé. Solo chi si fa ancora spaventare dal mondo come da una vita sacra, può osservare ogni sua creatura e affrontarla. Sono stregata, ancora qui, con il corpo nella mia casa di collina appenninica e con la mente in una qualche taiga dello spirito.
Nessun commento:
Posta un commento