Non
si può vivere così nella paura. Per Leo Lionni
Una volta ho frequentato anch’io la scuola elementare.
Certi giorni la maestra Capecchi ci portava a disegnare a Pistoia Ragazzi, un
centro comunale dove sperimentavamo tecniche nuove per colorare. Ad esempio
mettevamo i fogli di carta su superfici ruvide, su rettangoli di vetro percorsi
da colline e montagne aguzze e poi ci passavamo sopra i pastelli a cera per
vedere che strana mappa sarebbe apparsa. Fu durante una di queste gite che ci
dettero delle cartoline illustrate. Buffe davvero: sulle cartoline c’erano dei
topini grigi, sempre indaffarati in qualcosa. Sulla mia c’era un topino
profondamente assorto che portava un papavero come un ombrello – si chiamava
Federico.
Da dove veniva e dove si perdeva col pensiero?
Rimiravo l’immagine e non sapevo, allora, che era la copertina di un libro, che
ce n’erano molti altri disegnati e scritti da un grande artista di nome Leo
Lionni. Tuttavia il topino mi parlava, come se fra noi si fosse stabilita una
strana sintonia e il giorno in cui avrei conosciuto la sua storia avrei capito
perché. Lo attendevo con attitudine fatalista e fiduciosa. Perché non sempre la
curiosità vuole essere soddisfatta in una narrazione e io avevo già molto: un
disegno che mi piaceva, un topino che assomigliava a me quando, presa nei miei
pensieri fantastici, non mi accorgevo di restare indietro, di non ricambiare il
saluto dei conoscenti, di dimenticare perfino il luogo dove mi trovavo. Come
quando in un museo la maestra dovette tornare indietro a prendermi: erano
usciti tutti e io vagavo con la seggiolina pieghevole ancora sotto il braccio
tra i ritratti del passato. Nella piccola illustrazione riconoscevo un animale
affine.
Federico ha un po’ la funzione dell’alter ego di
Lionni: è il topino cantastorie, che raccoglie colori e parole dal mondo,
mentre gli altri fanno provviste per l’inverno. Che sciocco!, forse qualcuno
esclamerà. Ma quando sottoterra, nel buio e nel freddo dell’ultima stagione i
topini si fanno sempre più tristi è Federico a incantarli, a portare l’altro
cibo che riempie una preziosissima parte del corpo: non la pancia, ma l’anima.
Ognuno ha una sua ragione d’essere, basta aspettare che questa si manifesti, si
faccia accogliere. Federico parte avvantaggiato perché sa cosa sta facendo,
anche se gli altri topolini lo accusano di non lavorare: sa che i frutti del
suo lavoro richiedono una pazienza maggiore e forse non può fare a meno di
contare le meraviglie del mondo, tradurle in linguaggio – anche se questo
significa vivere per molto tempo isolato, senza la comprensione altrui.
Riprendo ora il libro per ricordarmi di quando ci
siamo incontrati, della sorpresa poi di aver provato anche io, crescendo, a
inventare storie e poesie come quel misterioso topino della mia cartolina.
Accanto a lui ce ne sono altri nella mia libreria: Teodoro e il fungo parlante;
Cornelio; Piccolo blu e piccolo giallo; Pezzettino; Guizzino. Tutti loro hanno
a che fare con dei personaggi … in cerca di identità. Teodoro prova ad ottenere
l’attenzione degli altri topolini mentendo e la bugia gli prende la zampa:
quando i topolini se ne accorgono non gli resta che fuggire di gran carriera.
Ben diverso Cornelio, un coccodrillo che cammina su due zampe. Il mondo come lo
vede lui da quella posizione non lo vede nessun altro coccodrillo. Cornelio non
rinuncia alla sua particolarità – è curioso, è un esploratore e capisce infine
che anche gli altri coccodrilli vorrebbero essere un po’ come lui, quando li
scopre che tentano goffamente di imitare le sue acrobazie. Ciò che i
coccodrilli non sanno è che non possono divenire Cornelio, ma trovare una
personalissima ragione d’essere da portare nella comunità. Tutti e due, Teodoro
e Cornelio, sfidano la logica del gruppo coeso contro lo strambo: ma il primo
cerca la via rapida dell’inganno, causando la rabbia dei topolini; l’altro
procede senza mascheramenti, seguendo la sua natura. Gli altri lo apostrofano
con indifferenza: “Cosa c’è di speciale?”. E Cornelio se ne va arrabbiato a
imparare cose nuove. Alla fine capisce
che la differenza tra lui e gli altri è una sola: non esistono bravi e meno
bravi, adatti e inadatti; esiste chi ha il semplice coraggio dei curiosi e chi
non ce l’ha.
E perché tuttavia bisognerebbe avere coraggio? Qui
risponde Pezzettino, che non è un pezzetto di nulla – è se stesso, un intero
cui serve la consapevolezza. Per questa minuscola gioia attraversa mezzo mondo,
accoglie consigli, interroga creature, si frantuma – cioè soffre, ma Lionni ce
lo dice così, con una pioggia di colori che sono i pezzettini senza occhi e
senza bocca dell’unico Pezzettino. Se impari te stesso prima o poi qualcuno ti
risponde. Qualcuno ti abbraccia. Non tutti – quelli giusti. Quelli che non ti
vogliono in un certo modo, ma ti attendono per come alla fine tu stesso ti incontri
e riconosci. Si tratta appunto di tentare di risolvere le moltissime domande e
angosce di cui fin da piccoli facciamo esperienza. E di dirsi, forse, che
essere piccoli come un “pezzettino” non significa necessariamente doversi
accorpare a qualcosa di più grande: significa essere proprio grandi quanto
serve. Del resto ognuno avrà una sua qualità. Guizzino, per esempio, che
proprio pochi giorni fa mi è stato regalato nel disegno ad acquerello di un
bambino, è un pesciolino nero che vive in un branco di pesci rossi ed è il più
veloce di tutti: proprio in virtù di questo si salva dal feroce tonno che
divora i suoi amici. Da solo si mette in viaggio – triste, ma non vinto, cerca
una nuova compagnia. Quando incontra un branco tanto simile al suo li invita a uscire
nel mare aperto per godere delle sue bellezze, ma i pesciolini temono i grandi
pesci cacciatori.
“Ma non si può vivere così, nella paura” esclama
Guizzino che sa la perdita e la solitudine e di sicuro sa anche la paura:
perciò l’affronta. Quante volte mi sono ripetuta questa frase diventando
grande: non si può avere paura di tutto. E perché? Per la più difficile e
banale delle cause: perché occorre vivere. Vivere come una macchiolina di
colore in un libro che è molte cose: un pesciolino, una scaglia di coccodrillo,
una coda di topo, un quadratino arancione – una vivace presenza che non si
arrende. Occorre vivere, bambini. E più viviamo più troviamo la strada per il
cuore degli altri, per convincerli a non avere a loro volta paura, per essere
uniti insieme in un gigantesco pesce immaginario che riesce a scacciare i
mostri, a rendere abitabile il mare. Occorre vivere per sapere cosa significa
diventare un altro, man mano che diventiamo noi stessi. Accettare il suo punto
di vista, meravigliarsi con organi di senso che nemmeno sospettavamo di avere,
trasformarsi nella nostra avventura. Giocare come giocano Piccolo blu e Piccolo
giallo, così amici ed entusiasti da fondersi nel verde e diventare
irriconoscibili perfino ai loro genitori. Un pianto liberatorio li riporta allo
stato originario e nell’abbraccio con le famiglie tutti si fanno verdi, tutti
si mescolano. Con la poesia del colore Lionni sussurra un segreto in bella
vista: se hai il coraggio o l’incoscienza di provare perfino il dolore,
l’estraniamento da coloro che ami, per la bellezza di stare al mondo, chi ti
ama davvero alla fine comprenderà. L’amore non sta mai al sicuro. Sta dove le
identità si mutano sempre in qualcos’altro, dove si rischia, dove si sceglie di
perdersi pur di non perdere l’entusiasmo per la vita. Perché tutti i bambini
vogliono una cosa dallo stare al mondo: essere felici. Che vuol dire: avere
amici, ma non a costo dei propri sogni e del proprio carattere; riconoscere un
luogo che sia casa, con finestre e porte aperte ovunque; imparare che ogni
viaggio è un distacco e un avvicinamento al segreto che ognuno custodisce. Ecco
io credo che nei libri di Lionni si incontri soprattutto questo: la possibilità
di essere felici, trasformando il terrore in stupore – entrambi sono il grande mare
del pesciolino temerario. Per ribaltarli l’uno nell’altro occorre solo
nuotarci dentro.
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