Per giungere alla casa materna, la casa dove ho trascorso buona
parte della mia vita, si può usare una scorciatoia fra l'erba, che corre fra le
case e il campo sul retro della mia abitazione. Non è certo niente di speciale:
una stradicciola, un viottolo di terra battuta, largo meno di cinquanta centimetri
tra i cigli erbosi da cui, attraverso il campo di magnolie, vedo il mio prato e
le finestre delle camere da letto che vi si affacciano. Eppure ogni volta che vi
cammino mi sento di nuovo invasa dal mistero e dall'attesa di quando ero
piccola. Credo che la prima persona a mostrarmi il viottolo sia stata mia
nonna. Un pomeriggio in cui tornavamo a casa dall'asilo. Senz'altro era piovuto
e io indossavo la mantella impermeabile di rosso sgargiante che la nonna mi aveva
cucito. Forse era l'inizio della primavera, forse la fine dell'estate.
Senz'altro il verde dell'erba era intenso e le gocce d'acqua si trattenevano a
fatica sui ramoscelli delle piante attorno. Dovevo attraversare
una soglia senza farmi prendere da spiriti avversi, riconoscendo invece quelli alleati,
venuti su dalle piante come una bruma. Prima e dopo il viottolo il mondo
normale, degli asili, delle case, delle strade con gli autobus e le macchine.
Lì, invece, in quel minuto di passaggio, il mondo sospeso dei sentieri magici,
quelli che vanno percorsi in silenzio, dove il tempo smette di esistere finché
abbiamo fede. La scorciatoia è un luogo dove non si può passare in molti, non
ammette che poche persone alla volta, in fila indiana, sotto lo sguardo dei
gatti sul muro o nel campo. Si diventa
personaggi fiabeschi, muti a cercare ortiche, o con uno zaino, una borsa, un
paniere pieno di cose preziose solo per noi. Si fa piano. Non si racconta a
nessuno. Si ascolta la nostra vita nascosta.
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