originariamente pubblicato su Il primo amore, qui.
di Sergio Baratto
Gli animali gommosi con quell’odore irresistibile di idrocarburi aromatici, serpenti, kraken, pesci preistorici, orribili creature di altri pianeti, altre dimensioni, mostri immaginari, insetti giganti cannibali, esseri mai immaginati prima, molli, slogati, flessibili, dai colori assurdi, affastellati sulle bancarelle all’aperto durante le feste patronali o nei negozi, le loro provenienze misteriose, le loro scritte esoteriche in rilievo sovrimpresse sulla gomma come cicatrici di marchi a fuoco, Patent pending, Made in Hong Kong, Made in Macao, “Zia, dov’è il Macao?”.
E mi ricordo che una volta mi hanno regalato lo slaim, verde come il catarro, una cosa pazzesca e fantasmagoricamente inutile che non mi è mai più capitata tra le mani. Versavo lo slaim sul pavimento della camera da letto di mia zia, rivolto verso la porta, con il tecnigrafo alla mia sinistra, la finestra alle spalle, il letto a destra, la carta da parati giallina e un televisorino Minerva b/n di plastica bianca. Probabilmente era un sabato o una domenica mattina. Oltre la finestra c’era la Fossa Viscontea, con ancora i vecchi alberi e la vecchia vegetazione disordinata, dove mio nonno si infilava come una specie di esploratore col machete per andare a caccia di miròld.
I miròld non erano velenosi come il cobra dagli occhiali dell’enciclopedia illustrata, ma erano aggressivi e il loro morso poteva essere doloroso e cruento.
Mi piaceva giocare col pongo. Il mio preferito era quello color rosso, anche se inesorabilmente dopo un po’ tutti i colori si mescolavano e mi ritrovavo con palle di pongo di un marrone uniforme. Una volta con quel pongo marrone ho modellato una lucertola- Mi è venuta benissimo, soprattutto la testa: sfocando la visione sembrava vera. L’ho appoggiata sul tavolino davanti al garage e sono salito per mangiare. Quando di pomeriggio sono ridisceso, ho trovato la mia lucertola di pongo marrone decapitata con un morso dai contorni frastagliati, e mentre mi disperavo per la perdita di quella testina di lucertola così perfetta, dentro di me mi inorgoglivo pensando che doveva essere stato un gatto, ingannato dal realismo della mia opera: quale miglior riconoscimento per uno scultore?
Il DAS mi dava noia perché si seccava troppo in fretta, e poi gli stampini dei cowboy promettevano soldatini meravigliosamente lucidi che nella realtà riuscivano tozzi, approssimativi, deformi e grigi come il cemento. L’odore del DAS invece mi piaceva moltissimo. Mia madre lo riponeva in un armadietto avvolto in uno straccio umido, poi ce ne dimenticavamo per qualche giorno, ci ritrovavamo spesso con mattonelle indurite e inservibili.
Mi piaceva giocare con i Playmobil. Avevo fortini, astronauti e conquistadores, piloti e galeoni, ma i miei preferiti per molto tempo sono stati i cavalieri medioevali con sfarzose armature, stendardi, elmi, pennacchi e bardature rosse per i cavalli.
In prima media ho preso una sbandata per la mitologia greca, probabilmente influenzato dal libro di lettura adottato nella mia sezione, è così per un anno ho messo in scena in lunghe sedute di gioco pomeridiano le principali vicende dell’epos ellenico, dalla storia di Oreste all’Odissea, utilizzando i personaggi antropomorfi con teste d’animale dei Lego Fabuland. Odisseo, uno dei miei personaggi preferiti, era un tricheco.
Con i Lego ero un asso. Erano il mio gioco preferito, ancora più delle macchinine. Ne avevo di tutti i tipi, tanti da riempire un fustino di detersivo. Avevo costruito una serie di robot da combattimento, e c’era tutta una storia complicata come nei migliori cartoni animati giapponesi. Il primo robot, il mio preferito, era nero e rosso con inserti gialli e blu. Si chiamava semplicemente “Uno”. Poi c’erano Due, Tre, Quattro e così via. Se non ricordo male, sono riuscito a raggiungere l’Undici.
Ogni tanto, come nella formula uno o nei cartoni animati sulle macchine da corsa, dove la vettura del protagonista veniva via via potenziata, anche i miei robot subivano degli interventi: cambiavo un colore qua e là, per simboleggiare le modifiche strutturali.
Ero molto piccolo. Una sera che mi è parsa lunghissima – ma forse era solo un grigio e buio pomeriggio invernale – mia zia si è messa a costruire un moto gialla, uno di quei modellini da assemblare con la colla e la pazienza. Un’altra volta ha costruito un aeroplano.
Il mio primo Lego era una casetta: piattaforma verde per il prato, mattoncini bianchi per i muri, mattoncini rossi triangolari per il tetto. Poi c’è stata una moto, forse della polizia, con elementi cilindrici e quadrati di plastica azzurra o rossa semitrasparente per lampeggianti e fanali. Infine i Lego Technics, complicatissimi, gialli e blu con giunti cardanici grigi, perni neri ed enormi pneumatici di gomma.
Io e mia sorella avevamo un grosso cesto di vimini pieno di giocattoli. Lo chiamavamo il “cestone”.
Mia sorella aveva uno strano gioco con decine di sagome componibili di bamboline, metà in rosa metà in azzurro. Le usavamo per creare due eserciti contrapposti. Io ovviamente usavo le truppe azzurre, lei quelle rosa. Ci si lanciava degli oggetti con delle catapulte immaginarie. Vincevo sempre io perché ero il più grande e non sopportavo di perdere.
Io e mia sorella avevamo inventato un gioco chiamato “palla bassa”, una specie di pallamano da giocare inginocchiati per terra spalle al muro. Bisognava colpire la palla con le mani e si era nello stesso tempo portieri e attaccanti.
Avevo un Paperino di gomma. Compare già nelle mie prime foto da neonato, ce l’ho ancora e l’ho passato a mia figlia.
Avevo anche un Barbapapà, anzi per la precisione Barbaforte, quello rosso.
Mi piaceva disegnare gli squali, gli scheletri e Alien.
Avevo una serie di dinosauri di plastica, un finto tirannosauro inverosimile con la cresta, due piccoli squali di gomma color antracite che mio papà ci aveva preso a Bellaria nell’estate del ’78. Questi due squali avevano la bocca aperta e un aspetto stranamente poco ittico e feroce, ma per anni mi hanno servito egregiamente nei miei giochi d’invenzione corredati di avventure e perigli. Inoltre possedevano una caratteristica particolare: presentavano entrambi un difetto evidente, ma ciascuno diverso. Il mio aveva la punta del muso smangiata, quello di mia sorella l’aveva piegata all’insù.
Se gli infilavo il dito in bocca, sentivo la gomma molle, liscia e cedevole, stringersi intorno al polpastrello. Era una sensazione tattile piacevole.
Più avanti mi sono fatto regalare uno squalo molto più grande e realistico, con la bocca spalancata, azzurro e bianco.
Per Alien avevo sviluppato una vera ossessione da quando mia zia era andata al cinema a vederlo e me ne aveva parlato lungamente un giorno che eravamo andati a passeggio per i boschi del Ticino. A Natale mi aveva regalato un libro illustrato con la storia della lavorazione del film, lo conservo ancora, semidistrutto e parzialmente verniciato da mio fratello quando è entrato nella fase del pennarello selvaggio. Su quel libro pieno di fotografie e disegni incredibili (Ron Cobb, Moebius, HR Giger ecc.) mi sono consumato gli occhi e l’immaginazione.
Di fronte a questa dedizione fanatica, mia zia si è rassegnata a portare me e mia sorella al cinema. Avevamo rispettivamente sette e cinque anni. Più o meno (calcolando l’epoca in cui Alien è uscito nelle sale italiane).
Siamo andati a Milano, stranamente i bigliettai ci hanno fatti entrare, abbiamo visto il film. Mia sorella ha masticato per tutto il tempo l’orlo della gonna, io quando sono uscito avevo le gambe molli. Mia zia deve aver pensato che aveva fatto una cazzata, invece quelle mie gambe tremanti in piazza duomo nella luce del pomeriggio mi sono rimaste fisse nella memoria come un’esperienza fondamentale.
Milano era per me il luogo lontano e vicinissimo in cui lavoravano il papà e la zia, in una grande azienda dai contorni incerti e mitici chiamata Loro & Parisini, e il posto dei due musei: quello di storia naturale e quello della scienza e della tecnica.
In prima elementare andavo a scuola dalle suore e una mia compagna mi ha insegnato a costruire piccole astronavi con le foglie di magnolia.
Una volta, dopo aver recitato le preghierine – Padre Nostro, Ave Maria, Gloria al Padre, Angelo di Dio, L’Eterno riposo – ho chiesto alla mamma se dopo morto avrei ritrovato il mio copriletto a righe verdi e bianche. Mia mamma mi ha detto di no e io senza volerlo ho pensato che allora l’aldilà non valeva granché la pena.
Un’altra volta le ho chiesto se il 1978 sarebbe tornato indietro. No, mi ha risposto, tra poco verrà il 1979, perché gli anni arrivano una volta sola e non tornano più. Allora senza saperlo ho provato una fitta di dolore. Le ho chiesto se sarebbe tornato dicembre e lei mi ha risposto che sì, dicembre sarebbe tornato e che i mesi, a differenza degli anni, tornano sempre. E io ho provato sollievo, ma non tanto, non abbastanza da cancellare la costernazione per la fine irreparabile del 1978.
Verso sera finivo di fare i compiti mentre in casa si spandeva l’odore del minestrone o del riso e prezzemolo.
Dopo le cinque faceva buio ed era inverno, chiudevo l’astuccio e veniva l’ora dei cartoni animati.
Una volta sono andato col papà in macchina a prendere mia sorella, che era ospite per il pomeriggio a casa di una sua amichetta. Mi ricordo lontani quartieri e lunghe strade vuote. Era buio e nevicava.
Un’altra volta, mentre di sera mio padre stava parcheggiando l’auto in garage e le luci rosse dei fari posteriori illuminava il muretto di fronte, mi sono imposto di serbare per sempre il ricordo di quel momento, che apparentemente non aveva niente di memorabile a parte la luce rossa. Ha funzionato, perché me lo ricordo ancora e sono qui a scriverne.
Aspettavo sempre con il batticuore l’arrivo del papà. Da una certa ora me ne stavo con l’orecchio teso e in uno stato d’ansia spasmodica ad aspettare di sentire il rumore della macchina e del cancello. Sapevo riconoscere perfettamente il motore della Fiesta.
Uno dei miei primi ricordi è questo. Apro gli occhi e sono nella mia cameretta, quella della vecchia casa in Via Galli dove ho abitato fino ai sette anni. Vedo le sbarre del lettino di mia sorella accanto al mio, la finestra aperta su un cielo notturno blu scuro ma molto luminoso. Appoggiata al davanzale, di schiena, mia madre guarda fuori, immobile e silenziosa. Di certo mi crede addormentato. Dal cortile sale il canto dei grilli.
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